venerdì 11 marzo 2011

LA FESTA DI SANT’ANTONIO IN ABRUZZO

Antonio eremita egiziano, nato a Coma intorno al 251, conosciuto anche come Sant'Antonio il Grande, sant'Antonio d'Egitto, ma anche sant'Antonio del Fuoco, sant'Antonio del Deserto, sant'Antonio l'Anacoreta, visse dapprima in una plaga deserta della Tebaide in Egitto e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni. Morì ultracentenario nel 356.
Fu il santo delle tentazioni: il diavolo gli apparve in tutte le sembianze, angeliche, umane e bestiali. Nell'iconografia è raffigurato infatti circondato da donne procaci (simbolo delle tentazioni) o animali domestici (come il maiale), di cui è popolare protettore, ma compare anche con il bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau' ultima lettera dell'alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.

                                  Il culto di Sant'Antonio Abate è ancora molto radicato in Abruzzo ed è particolarmente diffuso nelle zone rurali e nei borghi di montagna. Sant'Antonio Abate ha rappresentato una delle figure principali della religiosità popolare.
Venerato come protettore degli animali ( la sua immagine si trovava un tempo in tutte le stalle dei contadini), viene invocato per la salute del bestiame domestico e del corpo, specialmente contro il «fuoco di Sant'Antonio».
Per la cultura contadina la sua festa (il 17 gennaio) apre il ciclo dell'anno ed è ancora un giorno fondamentale del calendario, che indica oltre ai giorni dell'anno anche le opere da compiere e i lavori da eseguire nelle campagne.
Lo spirito di questa antica festa, che si ricollega alle altre feste abruzzesi di fuochi invernali, prima o dopo il solstizio d'inverno, ancora vive.
Gli anni che passano e la modernità che lotta con le tradizioni. Ma il giorno del Santo continua ad esser un "giorno di fuochi", e la memoria che vince l'oblio torna a raccontare ai più piccoli e a ricordare ai più anziani, usi e costumi delle comunità di un tempo, perché non se ne smarrisca definitivamente il significato e la bellezza.
Tanti piccoli centri si animano già prima e la gente dei luoghi prepara mucchi di legna o colonne di canne che, una volta accese, rischiareranno scorci e piazze, daranno luce a facciate di palazzi e chiese nei tanti borghi abruzzesi: i "fuochi di Sant'Antonio". Un elemento tradizionale e fondamentale della festa del Santo, riconosciuto come colui che vinse i diavoli e le fiamme dell'inferno. In alcuni paesi, gruppi di giovani mascherati girano di casa in casa a “cantare S. Antonio”: uno impersona il Santo Eremita; spesso c'è anche una turba di diavoli, la ragazza tentatrice e l'angelo che porta conforto.
Lo spirito di questa antica festa contadina resiste in Abruzzo, e in alcuni centri riveste particolare importanza.  

 

A Fara Filiorum Petri, prov. di Chieti, si bruciano le farchie, gigantesche colonne di canne che vengono innalzate davanti la chiesa di Sant' Antonio Abate ed incendiate nella sommità. Nel suggestivo spettacolo delle fiamme che guizzano nei colori bruni del tramonto, il paese festeggia insieme ai visitatori con canti e musica del folclore abruzzese, buon vino e cibi tradizionali. Nella vicina chiesa, intitolata a Sant'Antonio Abate, viene celebrata la funzione religiosa che ha il suo culmine nella benedizione delle Farchie in presenza della statua del Santo.Prima che il fuoco le consumi completamente, le farchie vengono private della sommità ardente e riportate nelle singole contrade, dove la festa continua in un clima di allegria e di ospitalità che caratterizza tutta la manifestazione.

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A SCANNO si festeggia Sant’Antonio il Barone. La leggenda "de lo beatissimo egregio Missere li barone Sancto Antonio", è uno dei più interessanti documenti della antica poesia volgare abruzzese. Opera di un chierico che dovette diffonderla, come mostrano chiare tracce della tradizione orale, in tutta l'area aquilana, il componimento è giunto fino a noi nel Codice Casanatense 1808, studiato da Vittorio Monaci che su esso tracciò il quadro delle origini linguistiche e tematiche della Letteratura italiana.Databile ai primi anni del Trecento la Leggenda è entrata nel repertorio dei poeti di occasione, specie in quelli appartenenti al mondo pastorale ed ha improntato moltissime orazioni in uso delle compagnie di questua che, in occasione della festa del Santo, attraversano ancora l'Abruzzo. 

A Scanno, che fu tra i più fiorenti centri dell'economia armentizia, il ricordo di questo antico componimento è ancora tanto vivo che Sant'Antonio, chiamato altrove Abate o di Gennaio, è detto Barone, anche allo scopo di distinguerlo dal Santo di giugno, detto del giglio, ed a cui si tributa una spettacolare festa.La mattina del 17 gennaio, di buon ora, la famiglia Di Rienzo che un tempo possedeva la maggiore parte delle greggi svernanti in Puglia, dà disposizione che si collochi fuori il portone del suo aristocratico palazzo una o più grandi caldai di rame, ricolmi di fumanti sagne con la ricotta.I devoti, dopo aver ascoltato la messa nella vicina chiesa di Sant'Antonio Abate, si avviano, con il prete in testa al corteo, verso casa Di Rienzo. Qui, dopo che il religioso ha provveduto a benedire il cibo, con una speciale formula che richiama molto l'incipit del cantare medioevale, ognuno si serve, riportandosi a casa un mestolino di minestra che consuma per devozione. Se il diciassette cadeva di venerdì, la ricotta, ritenuta cibo grasso dalla Chiesa, veniva sostituita dai fagioli e dall’olio di oliva.

La cerimonia, anche per lo scenario in cui si svolge è molto pittoresca e dà avvio al Carnevale. Un tempo, subito dopo la distribuzione delle sagne, il Corriere di Carnevale, cavalcando un recalcitrante somarello, annunziava per il paese, a suon di tromba che erano aperti i festeggiamenti del periodo più pazzo dell'anno. Lo seguivano le maschere tradizionali che ricalcavano l'antica drammaturgia religiosa delle origini, rappresentando gli eremiti, i piccoli confratelli e l'episcopello, un bambino che per un giorno impersonava il vescovo e ne svolgeva le funzioni. 

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A Pratola Peligna la tradizione vuole che la sera del 16 di gennaio,si svolga una "rappresentazione in costumi caratteristici" con Sant' Antonio e il diavolo, impersonati da due confratelli della SS.Trinità,  accompagnati da musicanti che cantano la vita, le tentazioni e i miracoli del santo e girano per le vie del paese fino a tarda notte. Il 17 gennaio per la festa di Sant' Antonio a Pratola è antica usanza benedire gli animali; dopo la funzione della santa messa, presso la chiesa della SS.Trinità, la statua del santo viene portata in processione fino a  piazza Garibaldi nel centro del paese,  dove il Parroco impartisce la sua benedizione ad un coloratissimo corteo composto da animali domestici

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Una antica festa circondata da molte leggende, quella di Sant'Antonio Abate che si svolge ad Atri nei giorni 16 e 17 gennaio. Come in altri piccoli centri abruzzesi la sera del 16 gruppi di giovani girano per le case e le masserie di campagna cantando "Lu Sand'Andùne", un canto recitato, una  rappresentazione in cui compare il diavolo, nell'intento vano di tentare il Santo. Dopo la rappresentazione si è soliti mangiare salsicce, salsicciotti, formaggio, prosciutto e bere del buon vino.

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                  Oh che bella devezzióne
                  tè Chellonghe a Sant'Antone!
                  Quanta festa, quante spese
                  fa a ji Sante 'ste paese! …

 

A Collelongo il Santo eremita è festeggiato con una serie di cerimonie il cui elemento principale è il cibo.
La sera della vigilia del 16 gennaio, sette famiglie del paese, quasi sempre per assolvere un voto, o per esternare la propria devozione al Santo, pongono sul fuoco un grosso caldaio di rame, detto in dialetto locale cottora, in cui pongono a bollire grosse quantità di granturco, precedentemente tenuto in ammollo. Poiché i chicchi cuocendo si gonfiano, la minestra che se ne ricava è chiamata dei cicerocchi. Il locale in cui arde la cottora è predisposto per accogliere la visita di parenti ed amici, ed è addobbato con lunghe file di aranci, cestine di uova, frutta secca, in mezzo a cui troneggia un quadro di Sant'Antonio Abate.
L'operazione di bollitura ha inizio con la benedizione del parroco, che deve provvedere a recarsi presso ciascuna delle famiglie che partecipa al rito, e continua tra i canti e le preghiere degli astanti che si alternano nel compito di rigirare il granturco nel paiolo per mezzo di un lungo cucchiaione di legno, in quanto l'operazione è ritenuta foriera di prosperità e benessere.
Chiunque giunge a visitare la cottora viene accolto festosamente e riceve un complimento a base di vino e dolci. L'ospite, dal canto suo, si avvicina alla cottora e ne gira il contenuto recitando parole di augurio e di devozione. In questo modo si trascorre tutta la notte, mentre compagnie di questua, accompagnandosi con vari strumenti popolari, tra cui non mancano le zampogne, provenienti dalla vicina Valle del Liri, cantano l'Orazione di Sant'Antonio in cui si narrano la vita, le tentazioni ed i miracoli dell'eremita egiziano.
Di fronte alla chiesa parrocchiale, in un'antica cappella della quale è conservata una preziosa statua di pietra raffigurante Sant'Antonio Abate che, per l'occasione, è anch'essa decorata di agrumi, frutta e uova, i giovani accendono una grande catasta di legna, punto di riferimento delle compagnie e dei devoti che vi si ritrovano intorno per cantare le lodi al santo e passare la notte in allegria. Alle prime luci dell'alba inizia la distribuzione dei cicerocchi: innanzi tutto una lunga fila di ragazze, reggendo sulla testa conche di rame addobbate di fiori e di nastri, si reca in chiesa per offrire al santo una grande quantità di cicerocchi, che poi vengono consumati per devozione dai fedeli. Inoltre le famiglie che hanno provveduto alla preparazione delle cottore si premurano, oltre che a distribuire i cicerocchi a parenti ed amici e a chiunque ne faccia richiesta, anche a predisporre dei capaci recipienti lungo la strada, affinché anche i pellegrini ed i viandanti possano attingere al cibo rituale del granturco cotto.
Da qualche anno le ragazze che conducono i cicerocchi in chiesa hanno dato vita alla pittoresca gara delle conche riscagnate (cioé addobbate per l'occasione), in cui viene premiata quella decorata con maggior cura ed originalità. La festa continua per tutto il giorno con cerimonie religiose e popolari in onore del Santo.

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VILLAVALLELONGA: Le Panarde.

Con il nome di panarda si indica, specialmente nell'Aquilano, un rituale di consumo collettivo del cibo che consiste in un banchetto allestito in precise ricorrenze calendariali.
L'origine del vocabolo è piuttosto oscura, e probabilmente deve essere ricercata nella radice indoeuropea pan intesa nel senso di abbondanza. L'aspetto più spettacolare della panarda, almeno attualmente, sta nella quantità delle portate che possono superare anche il numero di cinquanta e nella etichetta che impone ai commensali di onorare la tavola, consumando tutte le vivande portate in tavola.
panarda castello La tradizione è comune a molti paesi, ma dove il rito ancora esprime compiutamente il concetto di celebrazione comunitaria con forti permanenze magico-sacrali, è a Villavallelonga, un piccolo centro posto entro la zona montagnosa del Parco Nazionale d'Abruzzo. Un documento ricorda che nel 1657 tale Pietro Paolo Serafini, secondo una consolidata tradizione familiare, distribuiva una minestra di fave per perpetuare un voto fatto dai suoi antenati a Sant'Antonio Abate. La devozione popolare racconta che "tanti anni fa una donna della famiglia Serafini lasciò una creatura in fasce nella culla e andò a prendere l'acqua alla fontana. Tornando a casa incontrò un lupo che la portava in bocca. Invocò Sant'Antonio e il lupo lasciò la bambina. La donna promise al Santo la festa a fuoco, cioè la panarda. Dopo, la promessa si è tramandata per eredità".
Attualmente le famiglie obbligate sono una ventina ed ogni anno, immancabilmente, la sera del 16 gennaio, allestiscono un grandioso banchetto che si protrae tutta la notte. Nella stanza in cui si svolge il convivio viene preparato un altare su cui troneggia l'immagine di Sant'Antonio Abate, in mezzo a composizioni ornamentali dette corone e costituite da frutta, uova, dolci. Quando tutti gli invitati hanno preso posto alla mensa il panardere, ovvero il capo di casa, recita il rosario, le litanie ed infine intona  l'Orazione di Sant'Antonio, dopo di che dà l'ordine di servire gli ospiti.


Per quanto riguarda il cibo, la panarda, accanto ad un repertorio di vivande e di specialità gastronomiche locali, presenta alcuni alimenti fissi che non possono mancare in nessun caso. Essi sono: brodo di gallina e vitello, il caldaio del lesso, maccheroni carrati all'uovo con ragù di carne di pecora e detti "di Sant'Antonio", la pecora alla cottora, le fave lessate e condite, le frittelle di pasta lievitata, le ferratelle, la frutta con cui sono confezionate le corone e la panetta. La cena si protrae per tutta la notte, sia per dare modo ai convitati di consumare agevolmente le portate, sia perché il servizio ogni tanto è intramezzato da momenti di preghiera e dal canto di formule religiose, sia perché infine, ad una certa ora, le case dei panarderi vengono visitate dalle compagnie di questua. Mentre nelle piazze ardono enormi falò di legna, gruppi di cantori prendono a girare le strade e a visitare le case dove il loro arrivo è atteso e ben accetto e le loro esecuzioni sono ricompensate con cibo e somme di denaro. Le visite dei gruppi e dei canterini durano fino alle ultime ore della notte, dopo di che vengono riordinate le mense e viene servita l'ultima portata: un piatto di fave lesse, accompagnate dalla panetta, che è una speciale preparazione di pasta lievitata a cui sono state aggiunte le uova.
Prima però il panardere ringrazia tutti i presenti e intona con loro il Padre Nostro. Solo dopo questo ultimo atto e dopo ovviamente aver consumato le fave, la panetta e un bel bicchiere di vino in onore del Santo protettore, gli invitati lasciano la casa, dandosi appuntamento per l'anno venturo.

mercoledì 9 febbraio 2011

IL CONSIGLIO D’ABRUZZO APPROVA LA “GIORNATA DEGLI ABRUZZESI NEL MONDO

chiavaroli Pescara, 8 febbraio 2011 - La “Giornata degli Abruzzesi nel Mondo” diventa una istituzione. Lo ha deciso all’unanimità questa mattina il Consiglio regionale. “A ricordo – come evidenzia l’articolo 1 della legge istitutiva - dell’emigrazione regionale, al fine di rafforzare l’identità degli abruzzesi nel mondo e rinsaldare i rapporti con la terra d’origine”, ogni anno, il 5 agosto, sarà celebrata questa ricorrenza. Verranno organizzate cerimonie e momenti di approfondimento, in collaborazione con le Province, i Comuni e le scuole, così da ricordare il fenomeno dell’emigrazione abruzzese sotto vari aspetti. Inoltre, ogni anno, in accordo con la Conferenza dei Capigruppo, il Presidente del Consiglio regionale conferirà l’onorificenza di “Ambasciatore d’Abruzzo nel mondo” che sarà assegnata agli emigranti di origine abruzzese che si sono distinti non solo all’estero, ma anche in altre regioni italiane. “Con questa legge approvata oggi, si scrive una bella pagina istituzionale e si riconosce un tributo, non solo formale, ai tanti abruzzesi emigrati e ai loro attuali discendenti”. E’ quanto afferma il consigliere regionale del PDL Riccardo Chiavaroli, promotore e ideatore della legge tra le prime del genere in Italia. “Ringrazio l’intero Consiglio Regionale d’Abruzzo - afferma ancora Chiavaroli - per l’approvazione di un testo che assume particolare valore perché oltretutto non si tratta di un fatto occasionale, bensì di un impegno duraturo”.

lunedì 24 gennaio 2011

LE MALELINGUE DI SANT’AGNESE

L’Aquila, 21 gennaio – L’antica tradizione di Sant’Agnese, ben nota a tutti gli aquilani, consacra ogni anno in modo goliardico il rito della maldicenza. Lo scorso anno, nonostante la tragedia del sisma fosse ancora molto recente, gli aquilani hanno comunque deciso di onorare questo antico rito, sia pure in tono minore, in quanto la festa continuava a essere sentita come elemento dell’identità cittadina.

sant'Agnese Sulle origini di questa tradizione che si festeggia soltanto a L’Aquila, e che si tramanda ormai da tanti secoli, sono due le teorie più accreditate. La prima sostiene che nei primi anni della fondazione della città, vi fossero vari gruppi di persone che si riunivano, complice il rigido inverno, presso locande ed osterie per criticare i signori di allora. Per questo motivo, uno di questi gruppi fu esiliato dalla città. Essendo stati esiliati il 21 gennaio, furono soprannominati “quelli di Sant'Agnese”. Dopo sei mesi, a seguito delle numerose richieste da parte delle madri, mogli e fidanzate, “quelli di Sant'Agnese” furono riammessi in città ma a condizione che non facessero più pettegolezzi all'interno delle mura cittadine. Presero pertanto a riunirsi presso un'osteria vicino Porta della Rivera, appena fuori dalle mura cittadine.

L’altra ipotesi si ricollega al fatto che all'Aquila, a Sant'Agnese era dedicato un convento. Nel 1874, il complesso conventuale venne inglobato nelle strutture dell'Ospedale "San Salvatore" di viale Nizza, dove ancora sono visibili sia gli ambienti monastici e sia la bella chiesa di Sant'Agnese, cappella del nosocomio fino al trasferimento dello stesso a Coppito. Anticamente tale convento ospitava quelle che l'Antinori, storico aquilano, chiama le persone della “povera vita”, cioè le “pentite o mal maritate”, e tra queste anche le prostitute. Queste donne, spesso andavano “a servizio” presso le famiglie più benestanti della città, venendo così a conoscenza dei segreti delle case gentilizie presso cui lavoravano, segreti che mettevano in piazza dentro e fuori il convento, conditi con l'immancabile dose di esagerazione, ogni qualvolta avevano l’opportunità di incontrarsi e di scambiarsi confidenze e pettegolezzi. Ciò avveniva in particolare durante i festeggiamenti dedicati alla Santa cui era intitolato i convento e che giustamente, per l’occasione, le vedeva tutte riunite, anche per la gratitudine che sicuramente provavano nei confronti delle monache del convento di Sant'Agnese.Tra loro, ma qui siamo nel campo delle ipotesi, si creò una sorta di gerarchia in base alla capacità di spettegolare; una gerarchia a cui potrebbe aver preso l'eredità quella che si istituisce ogni anno, ancora oggi, con tanto di votazioni. male

Nel tempo anche gli appartenenti alla nobiltà e la borghesia celebrò la festa di Sant'Agnese anche se, dato il loro ceto, veniva assegnata una sola carica, quella del Priore. Tutte le altre cariche dai nomi più fantasiosi o altisonanti, sono invece di estrazione popolana.
Per questo è tradizione, a L’Aquila, la sera del 21 gennaio riunirsi in confraternite o congregazioni con lo scopo di usare bene la lingua, anche in senso gastronomico, per eleggere al loro interno le varie cariche, tratto distintivo della ricorrenza.Ce ne sono alcune storiche, che ricorrono in tutte le confraternite, ma per il resto anche qui la fantasia degli aquilani si è scatenata e c’è chi ne conta oltre duecento cariche.Ogni gruppo che si rispetti deve avere un suo Presidente, quello con la lingua più lunga di tutti, spesso aiutato da un Vice presidente o da un Segretario. A completare il direttivo non dovrebbero mancare mai la Lavannara, colei la Lima Sorda, che corrode, ma in silenzio, e la Mamma deji cazzi deji atri, che non ha bisogno di molte altre spiegazioni. Per il resto si può spaziare con la fantasia: da “Ju Zellusu”, quello che protesta sempre, alla “Recchia fredda” o “Recchia de prete”, quello che sta sempre ad origliare, alla “Lengua zozza”, a “ju Capisciò . Tra queste confraternite quella dei “Devoti di Sant’Agnese” è la più nota e da 45 anni elegge il Priore il quale, tiene a ricordare che “non si allude al “dire male” ma al “dire il male”, preservando lo spirito simpatico e mai infamante dell’antico costume.

mercoledì 20 ottobre 2010

La via della lana: Taranta Peligna

Merletti e ricami, arazzi e tappeti. L’arte del tessuto in Abruzzo passa anticamente per le mani operose ed abili delle donne. 

Da Scanno a Pescocostanzo, per passare a Taranta Peligna, Castel di Sangro, Fara San Martino, Lanciano, Bucchianico, Sulmona, Castel del Monte, Pietracamela, Nereto, Penne, e farsi apprezzare anche fuori dei confini regionali. 

coperta 2 La tradizione tessile abruzzese è legata fondamentalmente alla pastorizia che nel passato, durante il periodo della transumanza, - quando cioè avveniva la migrazione stagionale del bestiame dai pascoli di pianura a quelli di montagna e viceversa - obbligava gli uomini a stare per un lungo periodo fuori casa, e così le mogli preparavano tutto ciò che occorreva ai loro mariti, dagli abiti alle coperte di lana. E’ il caso delle famose "tarante", le pesanti e colorate coperte di lana senza "dritto" nè "rovescio", tessute a mano dagli artigiani di Taranta Peligna, paese montano situato a pochi chilometri dalla Grotta del Cavallone nel Parco Nazionale della Majella. Tradizione vuole che l’affermarsi dell’arte della lana nell’epoca medioevale, abbia determinato lo sviluppo di Taranta Peligna, centro situato nei pressi del tratturo Magno, non molto distante dalla Via della Lana che univa, attraverso l’Appennino centrale, le città di Firenze e Napoli. Questo paese sin dal XI secolo si affermò come fiorente centro tessile e commerciale.coperta 3

Infatti, a Taranta Peligna fin dal tardo medioevo si ha notizia della presenza di lanifici, che negli anni 60 del novecento giungevano ad occupare fino a 150 persone, utilizzando la forza dell’Aventino per produrre energia e realizzare le pesanti coperte abruzzesi ornate di frange raffinate lavorate a mano da un altro centinaio di donne nelle proprie case. Storicamente, infatti, la manifattura tessile dei centri montani alle falde sud-orientali della Majella ruotava intorno alla figura dell’impreditore-mercante, che commerciava nelle fiere dell’Italia meridionale panni e filati di lana prodotti negli stabilimenti a Palena, Lama dei Peligni, Taranta Peligna, Fara San Martino e Torricella Peligna, affidando a domicilio la produzione dei semilavorati.coperte
Della remota origine di quest’arte abbiamo testimonianza anche dal culto di San Biagio, protettore dei lanaioli proprio perché martirizzato con l’attrezzo per cardare la lana, a cui era dedicata una chiesa tardo romanica, i cui ruderi si conservano nella parte più antica di Taranta Peligna. Un culto che ha radici secolari e tuttora vivo. Alle falde della Majella, ancora oggi i maestri artigiani della lavorazione della lana sono i principali promotori della festa folcloristica e religiosa in onore del Santo. Santo di area pastorale, S. Biagio sarebbe nato e vissuto in Armenia e non è un caso che anche i pani votivi del 3 febbraio (oltre i disegni e i simboli raffigurati sulle coperte e tovaglie di produzione locale) trovino ispirazione nell’antica civiltà orientale.

Sulla facciata della chiesa si leggono i segni della storia del paese che si riconosce nell’effige del ragno tessitore, la tarantola. E questa è anche la denominazione specifica di alcune particolari stoffe – soprattutto di lana rozza nera – prodotte qui fin dal ‘500 e rinomate in tutto il mondo. Oltre alle “tarante” o “tarantole”, lungo le rive dell’Aventino e del Verde si fabbricavano anche le più pregiate “ferrandine” di lana e seta ed altri filati per tappeti, arazzi e coperte. Qui erano infatti abbondanti le materie prime: la lana innanzitutto, ma anche il legname per attivare le caldaie delle tintorie, l’olio per la precardatura della lana, le erbe tintorie per colorare i tessuti. Ora la produzione, pur ridotta, è comunque attiva e consente di acquistare presso il punto vendita dell’unico stabilimento ancora aperto, gli ultimi pezzi della tradizionale coperta abruzzese, decorata con i tipici colori e disegni di ispirazione arabeggiante o religiosa. coperta 4 Quelle con gli angeli si usavano infatti per ornare le finestre e i balconi abruzzesi al passaggio delle processioni e dunque in omaggio al Santo Protettore che attraversava le strade di paese in spalla ai fedeli. Quelle con motivi floreali o geometrici ricordano gli scambi culturali con le tessitrici di Pescocostanzo, dove nel seicento i turchi esportarono l’arte del tappeto mediorientale. I lanifici, oggi in odore di archeologia industriale, sorgono fuori dall’abitato di Taranta Peligna nei pressi del parco fluviale di dannunziana memoria, le Acque Vive, dove polle sorgive dissetano la ricca vegetazione in un ambiente suggestivo e riposante. L’acqua purissima era peraltro un requisito fondamentale nel processo di colorazione della lana, che doveva bollire a lungo in grandi caldai, insieme al mordente (sostanza che fissa il colore) e alle piante tintorie, spontanee come l’olmo, la reseda, l’orniello, oppure coltivate, come la robbia (nota per il rosso delle radici) e il guado (i cui pigmenti azzurri, presenti nelle foglie, furono utilizzati per colorare le giubbe dei giacobini francesi).

venerdì 8 ottobre 2010

pescasseroli, nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo

Pescasseroli, centro storico Pescasseroli è la capitale storica del Parco Nazionale d'Abruzzo Lazio e Molise. E' adagiata in una conca all'ingresso dell'Alta Valle del Sangro a m. 1167 sul livello del mare. Questo altopiano ricco di pascoli è circondato da boschi centenari e montagne suggestive. Pescasseroli è un paese in cui è evidente la simbiosi tra natura ed architettura: il centro abitato è in perfetta armonia con le meraviglie naturali che lo circondano. Il nucleo urbano, in posizione pianeggiante, si è sviluppato attorno all'antica abbazia ed è caratterizzato da tradizionali costruzioni in muratura di pietrame e malta, adornate dalle particolari finestre con imbotti in pietra da taglio locale, denominata "pietra gentile" dal nome dell'omonima montagna. La piazza S.Antonio, così chiamata per la presenza di una chiesa oggi scomparsa, è il fulcro della vita di Pescasseroli: è colorata dai faggi e profumata dai piccoli fiori dei tigli ed è ornata, oltre che dalla sede del Comune, da una graziosa fontana, sormontata da una statuetta dell'Immacolata.Pescasseroli, centro storico

l nome Pescasseroli sembra derivare da "Pesculum Serulae", cioè roccia sorgente a picco (dal tardo latino "pensulum"), o masso che serra; secondo Benedetto Croce, "Pesculum ad Sorolum", cioè masso presso il piccolo Sangro (le sorgenti). La parte più antica dell'abitato sorge ai piedi dello sperone roccioso «pesco», su cui si trovano i resti di «Castel Mancino». Nella leggenda marsicana il poeta pastore Cesidio Gentile fa derivare la fondazione di Pescasseroli dalla vicenda drammatica di un giovane cavaliere crociato, Serolo, figlio del Conte Maracino, signore del castello. Serolo, partecipando alla I Crociata, incontra in Palestina la bella saracena Pesca, della quale si innamora e che sposa. In compagnia di un santo anacoreta, che aveva con sè la statuina lignea della Madonna nera, Pesca viene mandata da Serolo al castello. Pescasseroli ruderi mancino Una volta al castello, il vecchio Conte si invaghisce, non ricambiato, di Pesca che, fuggendogli, viene raggiunta ed uccisa in prossimità di una sorgente (quel posto è da allora chiamato «malafede»). Tornato dalla Crociata ed appresa la morte cruenta della sua sposa, Serolo muore di dolore. Sulla tomba dei due giovani sposi il vecchio Conte, in espiazione del delitto, fonda il paese che chiama Pescasseroli dall'unione dei due nomi.

USI E COSTUMI: E' un'antica usanza tostare e aromatizzare i ceci con la sabbia prima delle nozze. DONNE PESC Il costume tradizionale femminile di Pescasseroli, di istituzione relativamente recente, è tutto in nero, mentre quello antico era sfarzoso e vivace. Il costume nero fu introdotto nell'uso per una circostanza del tutto fortuita: si racconta che nel 1846 alcune donne di Pescasseroli che si recavano ad Ischia per delle cure termali furono oggetto, a Napoli, di curiosa e indiscreta attenzione. Le donne trovarono rifugio a Procida ove scambiarono i loro costumi con quelli delle donne locali. Tornate a Pescasseroli i nuovi costumi piacquero tanto da essere adottati da tutte le donne.

martedì 7 settembre 2010

L’AQUILA: LA PERDONANZA CELESTINIANA

La Perdonanza Celestiniana è un evento-storico-religioso che si tiene nella città di L’Aquila durante l'ultima settimana di agosto.Durante la settimana della Perdonanza Celestiniana L'Aquila si anima di spettacoli, concerti, mostre d'arte e di artigianato, rievocazioni storiche e di numerose altre iniziative culturali e di intrattenimento.

L'evento si svolge ormai da Papa Celestino oltre sette secoli, e cioè dall'agosto del 1294, quando fu incoronato Papa nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio il frate eremita Pietro Angeleri da Morrone con il nome di Celestino V.

Il nome Perdonanza si rifà al nome della Bolla Pontificia che Celestino V emanò dall'Aquila il 29 settembre 1294: la Bolla del Perdono. La Bolla di Celestino V concede un'indulgenza plenaria a chiunque, confessato e comunicato, entri nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio dai vespri del 28 agosto a quelli del 29.

Il 5 luglio 1294, dopo due anni di contrasti (successivi alla morte di papa Niccolò IV), il Conclave, riunito a Perugia,  designò il monaco Pietro Angeleri - fondatore di un ordine che per secoli ha avuto, per l'appunto, il nome dei Celestini - come Pontefice.Un corteo accompagnò il Papa da Sulmona all'Aquila, alla Basilica di Collemaggio, da lui stesso fatta erigere alcuni anni prima, e dove gli furono consegnate le vesti pontificali il 29 agosto1294, davanti a una folla immensa e, soprattutto, a re Carlo II d'Angiò e a suo figlio Carlo Martello.

Celestino V fu protagonista di un papato brevissimo: si dimise -uno dei tre casi nella storia dei Pontefici romani - nel dicembre dello stesso anno e morì nell'esilio di Fumone (in provincia di Frosinone) due anni dopo. Alcuni seguaci del suo ordine trafugarono successivamente le sue spoglie mortali e le portarono nella basilica dell'Aquila di Santa Maria di Collemaggio, dove tuttora riposano.collwmaggio

In quei pochi mesi di pontificato, Papa Celestino lasciò alla città dell'Aquila, ma anche al mondo intero, un'eredità di portata straordinaria. Alla fine di settembre del 1294, infatti, proprio dalla basilica di Collemaggio, emanò una Bolla con la quale concedeva un'indulgenza plenaria e universale a tutta l'umanità, senza distinzioni. Un evento eccezionale, visto che accadeva in un periodo in cui il perdono era spesso legato alla speculazione e denaro

 

tomba di Celestino

La Bolla di San Pietro Celestino, che introduceva i concetti di pace, solidarietà e riconciliazione, poneva solo due condizioni per ottenere il perdono. L'ingresso nella basilica di Collemaggio nell'arco di tempo compreso tra le sere del 28 e del 29 agosto di ogni anno ("dai vespri della vigilia della festività di S. Giovanni fino ai vespri immediatamente seguenti la festività"), e l'essere "veramente pentiti e confessati".Porta santa La tradizione popolare vuole che per ottenere l'indulgenza si debba attraversare una porta specifica detta Porta Santa, ed aperta solo in occasione della Perdonanza, ma la bolla chiede solo di entrare nella chiesa. D'altronde, tale porta non esisteva all'epoca di Celestino V.

Emanando la Bolla del Perdono, Celestino V stabilí quindi un precedente del Giubileo. La consuetudine di un periodico Anno Santo infatti, che Papa Bonifacio VIII avrebbe introdotto con cadenza secolare nel 1300, trova la sua prima formulazione a L’Aquila.

 corteo 

Gli aquilani hanno sempre sbandieratori custodito gelosamente la Bolla del Perdono, oggi conservata nella cappella blindata della Torre del Palazzo Comunale. Gli antichi statuti civici vollero che, proprio perché erano stati  i cittadini a proteggere il prezioso documento, fosse l'autorità civile a indire la Festa del Perdono, rispettando, comunque, il dettato di Papa Celestino. E ancora oggi è il sindaco dell'Aquila a leggere la Bolla del Pontefice, poco prima dell'apertura della Porta Santa della Basilica di Collemaggio da parte di un cardinale designato dalla Santa Sede.

Nel 1983, l'allora sindaco Tullio de Rubeis decise di rilanciare la Perdonanza. Alle manifestazioni religiose fu aggiunto un corteo storico (il Corteo della Bolla) per portare la bolla dal palazzo municipale (dove è conservata) fino alla Basilica, immediatamente prima dell'apertura della Porta Santa. Al corteo partecipano gli stendardi dei comuni legati alla figura di Celestino V nonché numerosi gruppi di rievocazione storica, come ad esempio il gruppo Sbandieratori città di L'Aquila.Da allora la Porta è sempre stata aperta da un cardinale.La settimana precedente è caratterizzata da feste, concerti, rassegne, convegni e mostre, proprio per il doppio carattere secolare e religioso della festa.Nel 2008 ad esempio l'ospite d'onore era Ela Gandhi, figlia del Mahatma Gandhi. Negli anni, queste manifestazioni sono state sempre più rifinite, grazie anche alla nascita di associazioni di ispirazione celestiniana.

Il 6 aprile 2009, L’Aquila ha subito uno dei piú devastanti terremoti che ha causato circa 300 vittime, oltre che migliaia di senzatetto. I maggiori danni hanno colpito il cuore della cittá con i suoi monumenti, chiese, palazzi. Anche la Basilica di Collemaggio ha avuto un crollo, ma le spoglie del Santo si sono salvate. 

BasilicadiCollemaggio_terremoto2009

  recupero Celestino

La reliquia si salvo' gia' nel terremoto disastroso del 1703. Quella volta venne giu' tutto il soffitto. Questa volta e' precipitata la volta. Ma il corpo non e' rovinato. E nemmeno la Porta Santa'.

sabato 21 agosto 2010

IL LACCIO D’AMORE DI PENNA SANT’ANDREA (TE)

Il Laccio d’amore affonda le sue origini nella preistoria, essendo, secondo gli studi piú attendibili, l’ultimo residuo di una piú vasta liturgia di riti agresti di venerazione delle divinitá arboree e di propiziazione della feconditá.

A  Penna Sant'Andrea  il   ballo  del  laccio è  rimasto  radicato  sino ad oggi assumendo la connotazione di danza tipica delle  feste  e  di  ballo  propiziatorio  dei  matrimoni  in  occasione  dei quali è tradizione  trarre  presagio  per   il  futuro   della  coppia   dalla  riuscita  dell' intreccio e  del  disintreccio  dei nastri.     

                              salterello                                     All 'inizio  del '900  si  è costituito l 'omonimo Gruppo Folkloristico che ha  fatto conoscere il ballo in tutta  Italia ed in numerose nazioni europee.   

 

Nella  versione  attuale  il  Laccio d' amore  si  compone  di  vari balli, tutti accompagnati dal suono del   ddu  bbotte,   tipico  organetto  abruzzese  diatonico,  i quali   rappresentano  la  vicenda  amorosa  dal primo incontro al matrimonio.ddu botte

La ‘zenna cuperte’, o ballo di entrata, descrive l'incontro tra i ragazzi e le fanciulle a cui segue lu ssaldarelle,  tradizionale danza in coppia che mima il corteggiamento, manifestato con sorrisi ed ammiccamenti, con ripetute ed  insistenti  "avances" dell'uomo e piccoli svolazzi di gonne delle donne.

Lu trallallere , ballo in  cerchio  consistente  essenzialmente in un passamano, simboleggia il rifiuto della corte della ragazza

Dopo  la serenata de lu mbrijche in cui lo spasimante, fattosi coraggio con un fiasco di buon  vino, porta la serenata  alla sua amata che finalmente accetta il corteggiamento, è la volta di  una  polka per festeggiare il fidanzamento.

lacciodamore

Infine  il  ballo   del   laccio, con l'intreccio dei  nastri  policromi sulla sommità del  palo,   rappresenta  il matrimonio, ed acquista il valore di danza propriziatoria: se l'intreccio riesce il matrimonio sarà senz'altro felice, altrimenti...